La seconda stagione di Andor è terminata! Le avventure dei nostri eroi ribelli giungono al loro epilogo, unendosi agli eventi di Rogue One! Cosa ne pensa la redazione? Scopriamolo insieme!
Andor è contemporaneamente amore e odio – Fabio P.

Difficilissimo scrivere una “recensione” di Andor. La strada più facile sarebbe concentrarsi sui suoi pregi, sulla perfezione. Ci sarebbe solo il problema di sintetizzarla, perché anche il più minuscolo dettaglio è impregnato di un universo di significato. Mettete in pausa in un qualunque momento di un qualunque episodio e provate.
Un esempio completamente random – è capitata questa scena mettendo in pausa: Partagaz, che ascolta frammenti del Manifesto di Nemik, viene convocato da Lagret a rendere conto dei fallimenti dell’ISB. Sa che sarà la sua fine e chiede un momento per raccogliere i suoi pensieri. Si suicida. Partagaz, che ha sempre considerato il suo lavoro non “security” ma “healthcare”, che considera la ribellione una malattia da arginare. È la facciata con cui vuole rintracciare Kleya senza destare sospetti. Non può arginare il diffondersi della ribellione. È solo, si dovrà prendere le colpe di un intero sistema. Lagret, con quel rapido cenno alle guardie perchè non intervengano, lascia che il suo capo si tolga la vita. È rispetto, è egoismo, è cinismo? È sicuramente, anche lui, spietatamente umano.
È una scena che racconta molto più di quello che mostra e se ne potrebbe scrivere per ore. Moltiplicatela per due intere stagioni, di scene così: impossibile. L’intera serie, e in particolare questa seconda stagione, è costruita in modo da raccontare molto di più di quello che mostra, fin dalla struttura a salti nel tempo.
Difficilissimo anche fare un bilancio del peso di Andor all’interno della saga. Ho più domande che risposte, e va anche bene, anzi, forse è proprio quello il punto. È sicuramente un altro pregio di questa serie. E allora qualche domanda, anche in questo caso random: come sarebbe stata la Trilogia Originale “in stile Andor”? Saremmo usciti dal cinema emozionati, con gli occhi sognanti? O che so…distrutti? Sembra una provocazione, ma lo è fino a un certo punto: sarebbe stato così divertente mettersi il costume di un Imperiale? Sarebbe stato altrettanto leggero?

Perché uno dei pregi di Andor è il suo realismo. E qui la faccenda si complica. Da una parte, fin da quando uscì Rogue One, che per primo aveva gettato il seme, questa millantata necessità di realismo in Star Wars mi aveva stupito, e continua a stupirmi. Siamo diventati fan di una saga che tocca la realtà solo attraverso personaggi più che altro stereotipati e riferimenti più che altro metaforici e all’improvviso – almeno per me – scopro che tutti han sempre sentito la mancanza di realismo.
Una saga che sì, almeno nelle intenzioni di Lucas, suggeriva una rappresentazione dell’autoritarismo – i nazi, ma anche il resto dei regimi dittatoriali e totalitari – e dell’imperialismo – quello vero, a stelle e strisce – e delle resistenze – i Viet Cong, per citarne una. Che sì, è sempre stata (anche) politica. Ma che ha sempre costruito la sua narrazione sul fantasy e sull’avventura, piuttosto che sul dramma o addirittura la tragedia. Che della realtà ha sempre dato una rappresentazione romantica.
Una saga in cui la componente di escapismo, di vera e propria fuga dalla realtà, è sempre stata determinante per il suo successo. Vale lo stesso per Andor? Perché uno dei problemi del realismo è che ti impone di farci i conti, con la realtà. Ti ci puoi sottrarre, certo, e puoi nascondere la testa sotto la sabbia di Tatooine, ma allora cosa te ne fai, del realismo? Ci giochi e basta?
Ognuno ci vedrà quello che il suo vissuto gli mostra, ma lo specchio sulla realtà di Andor a me sembra particolarmente lucido. Dalle invasioni per le risorse, ai genocidi, alla costruzione degli estremismi, passando per le fake news, la propaganda di regime, la criminalizzazione delle resistenze. E si potrebbe pure entrare ancor di più nel dettaglio, ma, paradossale, con tutta questa voglia di realismo, “siamo fan di Star Wars, non si parla di politica”.

Quindi potrei chiuderla qui, dicendo che ho amato e contemporaneamente odiato Andor. Che sono sollevato, finalmente è finito, lo dico sinceramente. Possiamo tornare a sognare la galassia lontana lontana, di vincere finalmente lo scontro con il male, di fare gli eroi e vivere meravigliose avventure insieme a i nostri amici alieni. Nonostante gli altri mattoni siano il caos, l’ansia, la violenza, l’orrore, la morte, la distruzione, il sacrificio che abbiamo visto per due stagioni, mi rincuora che il finale di Andor sia una rappresentazione visiva della frase “Rebellion is built on hope”, proprio perché, ad essere realisti, quello è di nuovo il lato romantico di Star Wars. Ci credi anche se sai che non è vero.
Un finale poetico, tra dolore, sacrificio e speranza – Marco
Gli episodi 8 e 9, per me, restano il vero vertice emotivo della stagione: lì Andor ha toccato le mie corde più profonde, con una tensione narrativa e un coinvolgimento umano che difficilmente dimenticherò. Ma anche il trittico finale, gli episodi 10, 11 e 12, mi ha pienamente soddisfatto. Pur con un’intensità diversa, questi ultimi capitoli hanno saputo chiudere la stagione in modo coerente, potente e a tratti sorprendente, confermando la solidità di una scrittura che non tradisce mai lo spettatore.
Tra tutti i personaggi, quello che più mi ha sorpreso è stato Kleya. Nell’arco di pochi minuti, da figura di una certa importanza, ma quasi sempre relegata in secondo piano, è diventata una delle presenze più memorabili della serie. Le sequenze ambientate nell’ospedale sono tra le più intense dell’intera stagione: mentre i flashback ci raccontano una bambina già disillusa, addestrata a sopravvivere nell’ombra e che impara da Luthen l’arte di essere una spia, il suo procedere deciso verso il capezzale dell’uomo che l’aveva salvata è intenso e senza via di scampo per chi prova a ostacolarla. Il momento in cui scollega il tubo vitale da quel macchinario è devastante. Non è lì per liberarlo, ma per concludere una missione. Dopo quel gesto, Kleya non è più la stessa. È vuota, spenta, spezzata e per questo ancora più vera.

Il personaggio di Luthen meritava una grande uscita di scena, e così è stato. Mi aspettavo la sua morte in modo diverso, ma invece arriva come un fulmine a ciel sereno, anche se ampiamente annunciato. Il modo in cui accade, però, è perfettamente coerente con il suo arco narrativo e prima di andarsene, ci regala uno degli scambi più brillanti della serie: il confronto con Dedra. Quel momento in cui le chiede se tutti gli oggetti della sua esposizione siano autentici, rivelando che due di essi, loro due, sono falsi, è semplicemente geniale. Un colpo da maestro, tanto nella scrittura quanto nell’interpretazione.
E poi c’è lui: K2. Vedere la sua entrata in scena mi ha entusiasmato. Cinico, ironico, implacabile. Ma questa volta, dalla parte giusta. Quando spinge violentemente un imperiale dalla balconata e si dirige con passo deciso verso Kleya, mi sono esaltato. Da un certo punto di vista è il lato “C-3PO” di Andor, ma è anche un combattente eccezionale.
Il ritmo dell’estrazione è volutamente dilatato, quasi meditativo, con un’attenzione ai dettagli che amplifica la tensione. Quando arriva l’azione vera e propria, il risultato è potente e coinvolgente: la quiete prima della tempesta, costruita alla perfezione.
Una delle linee narrative più affascinanti di questi episodi è quella che mostra come l’Impero non perdoni nemmeno chi lo serve con zelo. Dedra, pur con una sua visione personale, è devota all’organizzazione di cui fa parte, eppure viene trattata da Krennic con un disprezzo che non lascia spazio a dubbi: non esistono sfumature, né eccezioni. Il suo epilogo, imprigionata su Narkina (o un pianeta simile), arriva forse troppo in fretta, ma è amaramente coerente con l’universo imperiale.

Non tutto è stato perfetto. Alcune sequenze mi sono sembrate fin troppo rapide: il ritorno di Saw Gerrera, ridotto a uno scontro verbale con i vertici ribelli su Yavin, il marito di Mon Mothma liquidato con una breve sequenza, o la fugace apparizione della sorella di Cassian in un ricordo d’infanzia. Bello rivederla, certo, ma la scena sembra più un promemoria che un approfondimento.
Anche il suicidio di Partagaz segue questa logica. Non me l’aspettavo, e sinceramente, non mi ha convinto fino in fondo. Le pressioni ci sono, certo, ma l’ascolto del manifesto di Nemik come scintilla finale mi è sembrato un po’ forzato. Tuttavia, resta una scelta narrativa forte, che aggiunge profondità al personaggio.
Il finale ci conduce senza forzature verso Rogue One. Cassian che parte per Kafrene è l’anello che mancava. Ma ciò che davvero resta impresso è l’ultima immagine: Bix in un campo di grano, con un bambino in braccio. Un’immagine semplice, quasi bucolica, eppure potentissima. Perché, nel cuore dell’oscurità, Star Wars è sempre questo: speranza.
Nonostante per me il vertice emotivo restino gli episodi 8 e 9, il trittico finale ha saputo chiudere tutto con eleganza e coerenza. Non era facile, ma ci sono riusciti. Le due stagioni di Andor, insieme a Rogue One, formano ormai una trilogia narrativa che, almeno per me, non ha nulla da invidiare a quella originale.
Una galassia troppo vera per essere solo fantasia – Kiurlo Di Mare

Quando Andor ha esordito, nessuno di noi sapeva davvero cosa aspettarsi. La prima stagione era stata una sorpresa: adulta, cruda, necessaria. Ma con la seconda, le attese si sono fatte più grandi, e con esse anche i dubbi. Ne ho avuti anche io, lo ammetto. Soprattutto a metà percorso, quando il racconto sembrava farsi troppo denso, troppo ellittico, quasi frenato. Ma ora che la stagione è finita, posso dire senza esitazioni: Andor è uno dei vertici più alti mai raggiunti da Star Wars. E forse da tutta la serialità contemporanea.
Questi ultimi tre episodi chiudono il cerchio con un’urgenza e una precisione rare. Non solo per come fanno esplodere la tensione politica e militare che covava da settimane, ma per come restituiscono umanità a ogni gesto, a ogni perdita, a ogni silenzio. Non c’è una scena “inutile”. Ogni sguardo è un tassello. Ogni rinuncia, un colpo al cuore.
Senza strillare, Andor ci ha accompagnato nel cuore dell’Impero, non solo quello galattico. Ci ha mostrato come si costruisce una dittatura, giorno dopo giorno, con la burocrazia, la propaganda, la paura, e con quella tremenda complicità silenziosa di chi si volta dall’altra parte. Non servono mostri o super-armi. Basta una riunione del Senato. Basta una notizia manipolata. Basta una frase non detta.
Il discorso di Mon Mothma, urlato contro un’aula vuota, è uno dei momenti più potenti mai visti in Star Wars. Non solo per il contenuto, quel “genocidio” finalmente pronunciato a voce alta, ma per il peso umano che porta con sé. È il momento in cui una donna si spoglia di ogni maschera politica e si espone completamente, a rischio della propria vita e della propria storia. E anche noi, mentre ascoltiamo, ci sentiamo più nudi. Più responsabili.
Ma Andor non è solo denuncia. È racconto di resistenza. Di quella vera, fatta di atti minuscoli e giganteschi, spesso invisibili. Personaggi come Cassian, Kleya, Luthen, Bix, ognuno a modo suo, incarnano la fatica, la solitudine, il dubbio di chi sceglie di opporsi. Non sono eroi patinati. Sono figure tragiche, fragili, e proprio per questo indimenticabili.

Il lavoro di Tony Gilroy e della sua squadra è titanico: scrittura tesa e intelligente, regia concreta, interpretazioni magnetiche (su tutte, Genevieve O’Reilly, Stellan Skarsgård e l’incredibile esordiente Elizabeth Dulau). Ma ciò che rende Andor davvero unico è il suo coraggio. Il coraggio di trattare il pubblico da adulto, di raccontare che per ogni ribellione c’è un prezzo e che la libertà non si conquista mai senza rinunciare a qualcosa di sé.
Forse qualcuno dirà che è troppo lontano dallo “spirito di Star Wars”. Che mancano Jedi e duelli epici, la Forza e le spade laser. Io dico il contrario. Andor è l’anima più autentica della saga: quella che ci ricorda che, prima di essere fantasy, è una parabola morale. Un monito travestito da mito. E oggi, nel mondo in cui abitiamo, in questo inizio del nuovo secolo che sembra il materializzarsi di una delle peggiori distopie di cui leggevamo da ragazzini, ne abbiamo un disperato bisogno.
La stagione finisce. La serie si chiude. E ci lascia lì, in silenzio, con Bix che rassicura il neonato figlio di Cassian, “andrà tutto bene”, il suo sguardo rivolto al cielo. Un cielo che non promette salvezza, ma possibilità.
E se una serie riesce a lasciarti così… allora non è più solo intrattenimento.
È memoria. È coscienza. E’ speranza.
E le ribellioni si fondano sulla speranza.
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